“L’età fragile non è un’età della vita, ma la vita stessa, la memoria che non può occultare il suo dolore, la colpa della sopravvivenza. Una vita che c’è, esiste, ma giace muta come un sasso”.

Inizia così l’incontro della XXXVI edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino, dedicato all’Età fragile, il romanzo di Donatella Di Pietrantonio pubblicato per Einaudi e candidato al Premio Strega 2024. 

L’autrice sorride silente, rigirando fra le mani, con lo sguardo fondo di pensieri, il proprio romanzo: la storia di una famiglia che nasconde un trauma, una ferita interiore che è insieme “psiche e paesaggio”; un modo per raccontare, col cuore finalmente consapevole, un dolore non detto. Perché il trauma, si sà, è simile a uno sparo nella notte: improvviso, spaventoso, incontrollabile; ma anche il luogo attraverso la quale la nostra parola diventa cura, persino alla luce di quella fragilità connaturata al sangue che ci scorre nelle vene, il legame ancestrale con i nostri familiari, con la terra che ci ha generati e spinti nel mondo. 

In fondo, come diceva Freud “Gli scrittori e i poeti arrivano prima degli psicanalisti” e spesso, le uniche parole che contano davvero sono quelle che nascono senza analisi, dal flusso di coscienza che esala dal proprio mondo interiore. Ne L’età fragile è proprio questo mondo ad essere posto al centro, sottolineato dallo stesso titolo. 

“In questa storia è Lucia la voce narrante che ci racconta le fragilità di tutti, cominciando da quelle della figlia, Amanda. Il titolo infatti è sempre stato questo, “L’età fragile”, quella della giovinezza, forse di tutti, anche di chi è ormai adulto. L’ho cambiato e ricambiato tante volte, ma alla fine sono sempre tornata qua. Sia per Lucia che per me, la fragilità da raccontare è sempre stata quella di Amanda, all’inizio almeno. Andando avanti con la scrittura però, ho scoperto che ogni personaggio aveva esigenza di raccontare le proprie debolezze, le proprie fallacità. Lucia non vorrebbe farlo, quello di cui le importa è la figlia, il piccolo trauma dello scippo a Milano” 

Ma possiamo davvero avere la misura del trauma? Donatella Di Pietrantonio se lo chiede, davanti ai suoi lettori e davanti alla pagina che da bianca si tinge di passi, pensieri, rodimenti interiori. Chi può giudicare davvero un dolore? Pretendere di sapere la cifra esatta della sua misura?  In fondo tutto dipende dal proprio vissuto, dal terreno su cui cadono gli eventi. L’aggressione che subisce Amanda, così, funge all’autrice come grimaldello per tornare a un trauma antico, che appartiene alla storia famigliare; un fatto sepolto eppure ancora vivo nel sangue, nella carne che ricorda: il duplice omicidio che é accaduto nella Mariella, nel piccolo paese dell’infanzia di Lucia, chiamato da tutti semplicemente “fatto” — quasi a volerlo sottovalutare, depotenziare del terrore dovuto e metterlo nel magazzino del rimosso — ma che non è mai stato davvero lasciato all’oblio. Il trauma viene limitato, “incistato”, eppure continua a respirare, non muore, perché nessuno della famiglia se lo aspettava, non in un piccolo paese tranquillo, in cui le montagne sono una certezza placida e meditabonda, priva di pericoli umani. 

Per Lucia, che non ne ha mai parlato con nessuno, il dolore, la paura, sono ancora lì, e il trauma della figlia non è altro che la miccia che scatena la detonazione finale, il micro-trauma che le serve a rigettare tutto il rimosso, a  riviverlo e così rielaborarlo. 

Di Pietrantonio si cimenta in un’impresa titanica, quindi, quella di trasformare in parola quello che non ha lessico. Il racconto non è solo lo scoperchiamento del taciuto, qualcosa di conservato nel profondo della montagna, ma la cura dolorosa ai mali di un passato mai superato. É l’atto del parlare a portare una trasformazione, di sé e dei rapporti. 

La parola ha un potere catartico, curativo, proprio perché capace di incidere l’ascesso del trauma e depurandolo del dolore, portarlo a compimento. 

“Quando sono in presenza di uno psicanalista, purtroppo non posso farne a meno, mi sento a mio agio e affondo nel mio personale serbatoio, perché tutto questo riguarda anche me, il tentativo che ho sempre fatto di trasmettere inter-generazionalmente cosa vuol dire portarsi appresso il peso di un dolore. Anche nella mia famiglia é accaduto e io mi sono sentita chiamata a dare le parole al trauma. Quando ero ragazzina non ne avevo la possibilità, perché mi trovavo di fronte a un muro in famiglia. E allora ho scritto un romanzo. L’ho fatto per salvarmi, per salvarci tutti. Mia madre, durante la sua giovinezza, ha subito delle attenzioni moleste e l’unica che è stata in grado di difenderla davvero è stata sua madre, mia nonna, una donna molto alta e molto bella, imponente nella sua prestanza fisica e di spirito. Nonostante in famiglia fossero cinque sorelle, ognuna di loro ha sempre taciuto; pur sapendo cosa stava succedendo, non hanno mai denunciato. Mia nonna era più forte di tutto e di tutti invece, persino dell’uomo che la molestava, ed è riuscita a salvarla. Per molti anni della mia vita non ne ho mai saputo niente, proprio perché tutto era stato taciuto, eppure il dolore, il trauma, è caduto su di me lo stesso. Lo sentivo nelle ossa, nell’essere così lontana di mia madre. Lei non era una persona che accarezzava, che teneva in braccio, e io ho voluto vedere in quella reticenza una forma di difesa nei miei confronti. Pur senza parlare, il dolore mi è stato tramandato. Una sola volta nella sua vita mia madre mi ha raccontato tutto ciò che le è accaduto. Da quel momento ho avuto la necessità, non di scrivere perché quella l’ho sempre avuta fin da bambina, ma di pubblicare, perché il pus si sciogliesse e potesse evacuare; per creare una via dalla quale far fuggire il dolore”. 

Il paesaggio come specchio dell’anima

I paesaggi descritti nel romanzo diventano il riflesso dell’animo dei personaggi: le montagne imponenti, i boschi oscuri, la campagna placida. Sono luoghi carichi di significato, dove il trauma si mescola alla bellezza della natura, creando un’atmosfera suggestiva e avvolgente.

Di Pietrantonio, quasi a voler calcare le orme di Ovidio, elabora un’imponente impressione paesaggistica, che fonde le paure dell’infanzia a quelle della sé adolescente e infine adulta. Affondando le scarpe nella terra molle e toccando con mano la pietra fredda delle grotte, la scrittrice ripercorre le sue fragilità non dette, dando al paesaggio un ruolo da personaggio che è insieme buono e pericoloso, magico e pieno di insidie.

Dove arriva luomo può portare il male” dice la pubblico ministero nel romanzo, quasi a sottolineare quel che per l’autrice è una della basi da cui è sempre partita per i suoi romanzi: la controversia umana.  

“La montagna di Ovidio é la mia stessa montagna, quella di quando ero bambina” — dice, e il suo volto si rischiara di un sorriso mite, consapevole. “Una spelonca di profondi recessi, cava. Il sole la lambisce ma non raggiunge mai con i suoi raggi le nebbie miste a foschia che esalano dal suolo. È buona e cattiva, senza saperlo”. 

Scrivere, per Donatella Di Pietrantonio, é tornare alle paure dell’infanzia, di quando da bambina era costretta ad attraversare il paesaggio da sola, quel mondo in cui era mandata forse troppo presto. Aveva il terrore di addentrarsi nel bosco, confessa, di scivolare nella nebbia profonda; ma nessuno aveva il tempo di accompagnarla e gli stessi adulti non avevano gli strumenti per capire che non era ancora pronta per farlo. Eppure, nella sua solitudine, era animata da una grande determinazione: ce l’avrebbe fatta perché alla fine del bosco c’era la scuola. E lì sarebbe stata salva. Perché la scuola era illuogo, l’alcova luminosa in cui tutti parlavano italiano, la lingua armoniosa dei racconti, priva dei suoni sgraziati e gutturali del dialetto; una lingua che intuiva essere più ricca di quella che sentiva parlare ogni giorno a casa, che poteva spiegare ed esprimere l’astratto, i sentimenti, i pensieri… tutto quello che il dialetto non aveva, perché legato indissolubilmente alla terra. 

“Nel mio dialetto si poteva dire zappa in dieci modi diversi, ma non amore. La parola amore, se c’era, si usava per l’animale, la bestia che entra in calore e necessita di riprodursi. Era una parola viscerale, primitiva; una parola della carne”. 

Il legame indissolubile tra genitori e figli

Al centro della storia si trova il complesso rapporto tra genitori e figli, con Lucia che si ritrova intrappolata tra il duro patriarcato del padre e la ribellione silenziosa della figlia Amanda. Attraverso le loro vicende, Di Pietrantonio ci mostra le contraddizioni e le difficoltà di comunicazione che caratterizzano questo legame così profondo e complesso.

“Il padre nel libro é una figura importante. Rappresenta quel patriarcato duro, roccioso, radiale, senza parole, che si esprimeva unicamente con i gesti, con una singola espressione del volto. Somiglia tantissimo al mio vero padre. Io ricordo la minaccia che gli si annidava nello sguardo in certi momenti e la paura che ne avevo. Era tutto molto pre verbale o a-verbale. La vera autorità di quei padri era propria quella, e lo dichiaravano anche”. 

Lucia nel romanzo é la generazione di mezzo, che sta tra l’arcaico del paterno e la contemporaneità della figlia, un connubio lacerante che sottende a un percorso grandissimo che l’autrice stessa dichiara di aver dovuto fare nella vita. 

“Ho sessantadue anni, ma mi sembra di averne centocinquanta. Cercare di fare luce, di destreggiarsi tra il mondo rurale dell’infanzia e il presente di tutti da l’impressione di aver sempre vissuto in un’epoca precedente, molto più antica dei tuoi coetanei. Le cose che vivevo quotidianamente da bambina esistevano solo in quella bolla temporale, in quello spazio fisico. Eppure bastava spostarsi 30 chilometri più avanti per vivere e prendere coscienza di un altro mondo, completamente diverso da elaborare e da vivere. Prenderne consapevolezza frustra e disorienta allo stesso tempo. È come vivere un’eterna e inquieta ambivalenza. La figura del padre, ad esempio, non era mai sempre la stessa. Non era un monolite rigido: il padre che ti bastonava era anche quello che ti amava, che era attento alla tua vita; in un modo sgrammaticato, violento, analfabeta nei sentimenti, ma autentico. Mio padre, come tutti i padri di allora, aveva le sue buone contraddizioni: le figlie femmine erano generate per diventare il bastone della vecchiaia dei genitori, ma dovevano anche studiare. La piccola parentesi che mi sono aperta scrivendo questo libro, quindi, rivela anche la mia età fragile: mi sono ribellata tutta la vita per poi rimanere lì, e forse non è vero che sono rimasta perché amo le montagne. Forse sono rimasta lì per il mio mandato, per la mia vocazione di nascita: per prendermi cura dei miei genitori, delle loro fragilità nascoste, di quei genitori amati e odiati al parossismo, che erano tutto l’odio e la proibizione possibile, ma anche e soprattutto il contrario”.


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