Vivevo allora nell’incanto di Partenope, / coltivando il piacere
di starmene in disparte

Virgilio, Georgiche IV, 564

«Il film non dà risposte perché la vita è così: ci sono tante domande e non ci sono le risposte». Così risponde Paolo Sorrentino in un’intervista a Roberto Recchioni. Forse in questa risposta si cela il nucleo del suo ultimo film Parthenope, o forse no?

In 2h e 16 min, il regista premio Oscar ci presenta Parthenope e il suo «sguardo incantato dal mondo» come avrà modo di dire lo stesso Sorrentino a Vogue Italia, dopo i lunghi applausi della presentazione di Cannes. 

È una mostra alla quale lo spettatore è invitato tra tavole di indubbia bellezza classica sino al caravaggismo più cupo. Il Manifesto scrive che il regista convoca l’intero teatro napoletano ma c’è qualcosa di più. Il protagonista dell’opera, persino più invadente della bellezza di Parthenope è il Tempo. Un Tempo beffardo che si sposta nella macchina da presa intervallandosi tra una Parthenope radiosa tra la brezza del mare e una signora ormai in pensione che ricorda le sue infelicità. 

Non mancano i detrattori che già descrivono Parthenope come una “Jep Gambardella in bikini”, mancando tuttavia il punto della pellicola. Parthenope di tradizione virgiliana è sempre stata una figura doppia. Una figura mediterranea nata tra le onde e per questo sempre sfuggente, sempre senza certezze. Il nido dell’infanzia perduto e per questo la giovinezza non rimane idillio spensierato, ma il perpetuo ricordo del trauma. 

Parthenope, interpretata da una divina Celeste Dalla Porta, potrebbe avere tutto – e tutti – mentre tra gli amanti che cercano un pezzetto della sua carne e dei suoi anni – cercando di svelarne i misteri – lei preferisce il viaggio. Un viaggio omerico ma anche dantesco, dove la catabasi è in una Napoli (s)velata tra sacro e profano, tra miracolo e finzioni, tra ville con scorci maestosi a baracche fatiscenti. 

Parthenope ha un dono: lei è capace di vedere. “Vedere” deriva dal greco Οἶδα, perfetto del verbo εἰδέναι(vedere) ed ha la stessa radice ἰδ della parola εἶδον “idea”. Ecco che vedere vuol dire sapere. Sapere vuol dire conoscere. La sete interminabile di Parthenope di vedere, tra la sua professione di docente di antropologia e prima ancora di osservatrice del mondo, è in contrapposizione con il mondo circostante che ormai ha smesso di vedere e ha iniziato a presumere. 

“A cosa stai pensando?” gli viene chiesto ripetutamente quasi a scoprire – in quel costante fumo di sigaretta – perché i suoi occhi non smettono di cercare “tutto il resto”. Gli viene contestato l’utilizzo di frasi ad effetto, gli viene dato dell’insolente, della supponente, della poco intelligente ma perché cercare di far capire chi ha smesso di vedere? 


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *