A volte… a volte sento che il mondo esiste piano e male e non è abbastanza. E mi sembra di vivere in un Quasi.

Sebastiano lo guarda turbato, come se tutto quello che gli ha appena detto glielo avesse detto in un alfabeto clandestino e incomprensibile.

Crescere in provincia vuol dire essere spaccato a metà.

Ti tiene caldo, ci nasci. Rimani in una placenta serena. Penso non esista parola più adatta per descrivere la mia casa.

Un giorno durante un’intervista ho sentito una donna che diceva che non ci pensiamo mai, ma la maggior parte della popolazione mondiale è una popolazione di provincia. 

Quando mi sono trasferita a Roma questo concetto mi è sfuggito per molto tempo. Ci sono arrivata più avanti, con il primo natale da fuori sede, tornata a Trani. Quando ho trovato tutto fermo a come lo avevo lasciato. Mi sembrava incredibile quante cose mi fossero accadute durante quei mesi e quanto invece tutto lì fosse rimasto uguale. Con gli anni, però, ho iniziato a capire che anche i miei genitori crescevano, l’alimentari sotto casa mia aveva le stesse focaccine, a i commessi dei negozi del mio quartiere però spuntavano i primi capelli bianchi. E mi sono interrogata.

Questo via vai a cui mi sono sottoposta da qualche anno mi distrugge e mi fortifica ogni volta. Mi fa titubare.

Il cambiamento storicamente mi terrorizza.

Mi sento sempre in colpa per quello che lascio, che mi ha plasmata, ha fatto di me ciò che sono. Un’ingrata che rifiuta un bel posto, dove c’è chi mi ama, dove si vive bene e tutto scorre lentamente. Un paese accogliente, gentile, come quei visi dei commessi del mio quartiere. Dove accoglienza e gentilezza sono l’abc che si impara a scuola prima della lingua italiana.

Perché me ne vado? E poi ritorno.

Non so bene come sono guarita, e soprattutto se mi è successo veramente. Ma in quel Quasi di cui ho letto dentro Bagai di Samuele Cornalba, sicuramente, mi ci sono rivista.

Dopo qualche pagina, lui è diventato la mia seconda Promessa.

Bagai (Einaudi, 174pp., 16,50 euro) esce per la nuova collana Unici di Einaudi dedicata agli esordienti.

Racconta la storia di Elia, vittima e carnefice dell’inquietudine della provincia. Nato e cresciuto a Pandino, vive tra gli anni della fine dell’adolescenza e l’inizio di quella fase che si sa quando inizia ma non dove come e perché termina. Con lui vivono nella storia i ragazzini del paese, i bagai, e tutto ciò che quel paese, che in realtà è una piccola provincia, (non) offre. Con l’arrivo di Camilla tutto, forse, inizia a cambiare. E ciò che lo circonda e lo aspetta fuori comincia a fare meno paura.

Come hai iniziato a scrivere? E come è arrivato da te Bagai?

“Quando avevo quattordici anni, in prima liceo. Ho cominciato grazie a un incontro fortuito con la mia prof di italiano dell’epoca, che restò solo il primo anno e poi andò via. 

Un giorno si è presentata a lezione e quasi minacciandomi mi ha detto: ‘tu devi partecipare a questo concorso di racconti brevi’. Io inizio a scrivere. Prima di allora la scrittura serviva per un bel voto ai temi ma in maniera sciocca o ingenua non immaginavo che io potessi farlo, come se mi mancasse un’autorizzazione o un mandato da qualcuno.

Finito poi il liceo a Crema, vicino Pandino – dove vivo tutt’ora – ho visto che a Milano c’era una scuola di scrittura, e senza dire niente a nessuno ho mandato la candidatura per la borsa di studio. Bisognava scrivere un racconto breve e la recensione di un libro a proprio piacere.

È andata bene e mi hanno preso. 

Quindi sono andato lì un giorno di luglio dai miei genitori e ho detto loro: ‘Mamma, papà, io l’anno prossimo non mi iscrivo all’università’.

Nella scuola tra i vari insegnanti c’era anche Walter Siti e l’idea per Bagai è nata grazie alle sue lezioni, perché io, preso dal panico di non sprecare questa opportunità, ho cominciato a pensare: esattamente, cosa voglio scrivere? 

A un tratto ho avuto chiaro che, se avessi dovuto scrivere un romanzo, sarebbe stato sull’indifferenza.

È stato nucleo iniziale da cui sono partito, prima ancora di conoscere i personaggi, la trama o l’ambientazione”.

Dunque, al centro di tutto cè questa imponente indifferenza?Credi che non si possa distaccare dal tema della provincia? Quasi come se una fosse il mezzo per esprimere laltra?

“Certo. L’indifferenza mi interessa come tema perché è qualcosa che ho attraversato in maniera molto intensa negli anni dell’adolescenza. Mentre la vivevo non riuscivo a capire bene cosa mi stesse succedendo, perché mi mancava un aggancio col mondo. Invece scrivendo Bagai sono riuscito a metabolizzare meglio le cose che ho sentito in quegli anni.

Una cosa di cui vado molto fiero tra quelle che ho scritto è il tema del quasi (riportato all’inizio dell’intervista*): Elia dice che sembra di vivere in un quasi, come se il mondo non si completasse mai, come se la realtà esistesse piano e male.

Provincia e indifferenza sono tanto legati, come dicevi tu, anche perché sono molto autobiografici per me. Io ci tenevo particolarmente al fatto che l’ambientazione non fosse solo di sfondo ma anche funzionale alla storia. Pandino fa da contraltare all’indifferenza di Elia. È quasi un parallelismo: c’è una devastazione dei suoi sentimenti e una devastazione di questa provincia molto pigra che non offre molto, nonostante sia casa sua. Per forza di cose un paesino di ottomila abitanti, che sia al sud o al nord, difficilmente soddisfa la fame che ha un adolescente di mondo e di confronto”.

Sono curiosa di sapere che libro hai recensito per lammissione alla scuola di scrittura. E di che parlava il racconto breve che hai presentato.

“Il tema era: una lettera ritrovata. E io avevo scritto un racconto su un ragazzo che studiando la Divina Commedia al liceo usava la copia di sua mamma e lì trovava una lettera di quando lei aveva la sua età. Tutto questo serviva a farli riavvicinare. Era un personaggio in conflitto con la figura materna e, vedendola ora come persona e non come madre, si riappacificavano.

Mentre, come libro su cui fare una recensione avevo portato FightClub perché lo avevo letto da poco e mi aveva totalmente fulminato. Ero così preso dall’entusiasmo di Palahniuk che non ho resistito”.

E oggi che tipo di autore sei? Cè un metodo o un insieme di regole che ti imponi per rendere al meglio? Vuoi darmi giusto un paio di titoli che hai sul comodino?

“Sul metodo di scrittura sono dell’opinione, un po’ scontata, che se vuoi fare lo scrittore devi scrivere. Il più possibile. Una cosa che ho imparato è che la quantità batte la qualità. Non puoi basarti sull’ispirazione perché non è un metodo. È qualcosa che quando i pianeti si allineano ti fa venir voglia di farti un applauso da solo. Questo però accade l’1% delle volte. Tutto il resto avviene perché sei tu davanti al computer a tentare di portarti a casa la scena.L’importante è fissare quell’immagine, quel pensiero, quel personaggio e tornarci poi in un secondo momento.

D’altro canto, questa è un’altra banalità che dico, devi leggere parecchio. Quindi se vuoi scrivere, non dico bene ma almeno decentemente, devi leggere tanto e bene.

Io sono onnivoro. Non sono un lettore così disordinato. Abbastanza metodico, un libro alla volta. Quello che ho finito proprio ieri sera mi ha stregato ed è La valle delleden di Steinbeck. Mi sono pentito di non averlo letto prima. Invece mentre scrivevo Bagai ho creato un mio piccolo canone di autori indifferenti perché c’erano tanti appigli e un po’ per rubare, un po’per ispirazione, ho cercato delle letture. La prima più banale e ovvia è Gli indifferenti di Moravia, che percorrono tutto ciò che ho scritto. Poi Oblomov di Gončarov, Lo straniero di Camus, insomma tutti libri in cui c’è indifferenza e estraneità nei confronti del mondo”.

Mi piace molto che tu mi abbia parlato del tuo periodo di formazione come dei personali momenti di iniziazioneIl tuo libro, secondo me, decostruisce in primis lidea che i giovani non hanno interessi né passioni, e poi il ruolo del maestro. E ladecostruzione penso che torni spessosoprattutto nelle descrizioni delle figure maschili con cui ha a che fare Elia.

Lui è diverso dagli altri, si pone tante domande e non ha paura di porsele, però teme tantissime altre cose. Ti sei reso conto di aver fatto questa operazione scrivendo?

“Grazie per la domanda. Hai toccato un punto che di solito non emerge mai. 

Elia, al di là della trama, è un giovane uomo che deve capire cosa vuol dire essere maturo. E nonostante sia indifferente e impaurito nei confronti del futuro, come dici tu, si fa delle domande.

Anche io me ne sono fatte e me le sto tutt’ora facendo, pur solo cosa significa essere maschio, un giovane uomo. Quindi, certo, non è l’argomento principale di Bagai, però è molto presente.

C’è anche l’esempio del padre di Elia, che dal suo punto di vista è un maschio alpha, aggressivo. È chiaro da come lui guarda il suo corpo, con i braccioni pelosi, con gli aloni sotto le ascelle, ed è un modello di mascolinità che sente che non gli appartiene.

Poi c’è Fausto, il libraio che fa un po’ da genitore parallelo a Elia, che riempie alcuni vuoti che il padre lascia; è sicuramente un personaggio caustico, anche se dà spesso risposte sgradevoli.Però, ecco, rappresenta un altro modello di mascolinità, forse anche più fragile – probabilmente perché è un personaggio che ha una malattia – e in questa fragilità Elia trova un posto.

A me, poi, decostruire il ruolo del maschile interessa molto e soprattutto mi fa rendere conto che ha a che fare con nuove letture con cui sono entrato in contatto, anche se dopo la stesura di Bagai”.

Col fatto che in questo momento segui un master in editoria – che è il motivo per cui sei in treno di ritorno da Milano, ora che chiacchieriamo al telefono  quindi adesso che sei dallaltra parte, è cambiato un po il tuo approccio al mondo della scrittura?

“Per me è divertentissimo, perché mi sono reso conto di quanto sono stato ingenuo fino ad ora. Anche assistere a una lezione in cui mostrano la sostenibilità economica di un libro, come funzionano gli anticipi agli autori e come si calcolano le tirature eccetera, sono tutte cose nuove. Io ovviamente cercavo di rapportare tutto alla mia esperienza e mi sento molto più consapevole. Ti dirò, forse è anche perché sono e siamo – tiroanche te in ballo – ancora all’inizio del nostro percorso nel mondo dell’editoria, non perdo l’entusiasmo, ho ancora quella vena di romanticismo. I discorsi più materialistici non mi tolgono la magia e la voglia di fare”.

Nuovi progetti?

“Allora, te lo dico: il secondo libro arriverà. Su cosa, non lo so ancora. Ho un po’ di suggestioni rispetto al fatto che ti dicevo prima, che accumulo materiale sempre. Quindi magari la prima scena l’ho già scritta e non lo so. Sento che voglio dare vita a qualcosa che sia dieci volte più bello di Bagai. Riprenderò in mano anche i vecchi appunti del corso, vorrei che sia proprio un salto di stile.

E non ho particolari ansie sul fatto che si dica che il secondo libro è sempre il più difficile. C’è tanto entusiasmo. Una cosa che mi ha detto Siti è che il secondo libro inizia dalla terza stesura: evidentemente dovrei evitare gli errori da cui ho imparato prima.

Ma non ho paura. Io quando scrivo sono al mio posto”.

Domanda ultima e di rito: cè una promessa che ti sei fatto scrivendo? E una che fai ai lettori?

“Posso dire, anzi garantire che l’impegno sarà, se non come il primo, superiore. Io sento la responsabilità che ho scelto di mettere dentro quelle centosettanta pagine –poche ma talmentemeditate e filtrate attraverso così tanta attenzione – che oggi potreirendere conto di ogni singola virgola.

Questo atteggiamento non voglio perderlo.

Se tu vai a leggere nei ringraziamenti alla fine troverai la frase:questo esordio è per mia madre: te lavevo detto. C’è questo gioco tra di noi per cui io le dico che vincerò dieci Premi Strega e lei mi risponde che però prima o poi dovrò pagare le bollette.

Tutto ciò è nato proprio da una promessa che le avevo fatto in primo liceo: mamma, vedi che io scriverò un libro”.


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