Quando avevo diciotto anni, poco dopo l’esame di maturità, il mio migliore amico è morto.
Sua sorella – oggi che ho ventiquattro anni – parlando di libri, mi ha nominato Bara di seta, di Ilaria Caffio.
“Parla della perdita di una sorella. Lei, l’autrice, è pugliese, l’ho conosciuta tempo fa. Io non ce l’ho fatta a leggerlo, però, secondo me, ti piacerebbe”, mi dice.
Sentendomi investita di un dovere quasi spirituale, al Salone del libro di Torino sono andata diretta allo stand della casa editrice e ne ho comprato una copia. Prima di iniziare a leggerlo, mi sono ritrovata a una presentazione qui a Roma e mi sono perdutamente innamorata di Ilaria. Piccoletta, capello corto, vestita proprio come piace a me, aveva le gambe incrociate e parlava di quanto le sembra monotono il panorama editoriale oggi in Italia, leggeva i passi del suo libro come fossero versi di una poesia e rispondeva alle domande provocatorie di qualche vecchietta del club di lettura di Garbatella, sorridendo e dando sempre del tu. Ho deciso che sarebbe stata la mia prima Promessa.
Bara di seta (Solferino, 144 pp., 16 euro), è uno dei primi romanzi a far parte della nuovissima collana “I Pavoni”, diretta da Teresa Ciabatti. Il libro racconta di una famiglia che abita territori e tempi mai specificati ma sempre chiarissimi. Scritto in una seconda persona che non lascia spazio a interpretazioni, è la storia di due sorelle e del loro rapporto con la propria madre.
Incontro Ilaria, dopo averla presa in ostaggio alla presentazione e averle accennato qualcosa su alcune domande che mi sarebbe piaciuto farle, in un baretto dentro Piazza Vittorio. Arrivo un po’ prima, maniaca del tempismo, quando a dettarlo sono i mezzi pubblici della Capitale, e dopo aver finito la prima birra la vedo arrivare.
Le racconto della mia rubrica, dello spazio che mi piacerebbe dare ai ragazzi e alle ragazze che si approcciano al mondo della narrativa oggi e di quanto credo che, con loro, si possa godere di due chiacchiere come se rappresentassero per me esseri ancora puri, privi di quell’aria angosciante e performativa che si manifesta in alcuni autori italiani.
“A me non piace pensarmi giovane, sai?” mi ferma subito.
“Non credo di essere una giovane donna che scrive. Questa differenza tre me e scrittori di cinquanta, sessant’anni non mi interessa. Io voglio leggere libri di valore e basta”.
Le chiedo brevemente come è iniziato tutto:
“Quando ero una bambina copiavo molto. Ho iniziato così a scrivere, ricopiavo e imparavo a memoria”.
Proseguo chiedendole perché ha raccontato questa storia.
“Questa è la storia della mia solitudine, delle mie infanzie, qui c’è il mio rapporto con la morte, c’è una lettera per lei, c’è la voce di mia madre, ci sono lo stupore e la paura”.
Che tipo di autrice ti senti?
“Sono una scrittrice libera”.
Quando scrivi hai un metodo che segui rigorosamente o ti affidi all’ispirazione?
“L’ispirazione arriva se lavori duramente. Inoltre, solo con l’impegno costante puoi riconoscere cosa è ispirazione e cosa, invece, una buffonata senza futuro”.
Mi racconti qualcosa sulla scrittura della famiglia e delle origini? Sono temi che hanno un ascendente su di me da sempre. Poi nel tuo libro c’è una forte presenza materna, a tratti più forte della voce narrante. È una mia impressione?
“Io non sono qui. Non ci sono probabilmente mai arrivata. Sono qui adesso, di fronte a te, ma in realtà sto da un’altra parte”, mi dice. “Il libro viene sempre presentato come la storia di due sorelle, ma è la storia di una madre. Tutto per me ruota attorno ad una madre, io sono convinta di questo. Senza una madre -un sogno, un simbolo, una voce- una storia non può esistere. Lo stesso discorso vale per la mancanza, non credo che si possa scrivere senza”.
Ogni storia parte da una madre o, potremmo dire in maniera più generale, da una famiglia?
“È grazie alla mia famiglia se il mio immaginario ha preso queste sembianze. Io ne ho avuta una molto particolare. Col tempo i miei parenti li ho ridefiniti tutti a modo mio. Pensa, la mia maestra di italiano era al primo posto per me. Sapevo che a lei piacesse il viola e non sapevo il colore preferito di mia madre”:
In che modo selezioni cosa ti interessa approfondire o meno? Soprattutto cosa leggere o no.
È molto semplice: non leggo la narrativa sciatta e modaiola. Dedico il mio tempo, il mio sguardo, il mio cuore, ai poeti che sanno sconquassare il cielo. Penso ai libri che ho sul comodino. Isabella Santacroce, per esempio, è la scrittrice contemporanea più illuminata e ispirante che c’è. Penso a Giovanna Sicari, Milo De Angelis, Antonio Moresco. Generare terremoti, parlare alle stelle, ricevere da queste ultime un grido, una risata, uno schiaffo. La narrativa di oggi orina in un cortile recintato; dove vi porterà?
E ora c’è qualcosa che bolle in pentola? Nuovi progetti?
“Sto scrivendo un nuovo romanzo. Questa volta è narrato in prima e in terza persona e racconta di una maternità e di un incubo. Sono sempre in una casa, di fronte a una madre”.
Ilaria mi racconta dei tagli sostanziosi che ha dovuto affrontare Bara di seta, che nasceva come un libro di oltre cinquecento pagine e che, quando è uscito ne aveva meno di centocinquanta. Di quanto, però, lei fosse iper-convinta di questa scelta, mantenendo sempre fede a ciò che voleva dire e come voleva dirlo.
“Mi piace pensare a Bara di sera come ad una grande poesia. Un esercizio esteso negli anni. Ho rispettato sempre i miei desideri. Continuerò a farlo”.
Andando verso la fine, le confesso che mi piacerebbe impostare una domanda uguale per ogni autore che intervisto: quale promessa fai a te stesso rispetto alla scrittura e quale fai ai lettori?
“Sarò sempre leale. Sarò leale con questo foglio e con questa penna, con i lettori e le lettrici e, forse, anche con mia madre”.
Quindi a questo punto pensi che la tua ossessione sia il tema dell’abbandono?
“Certamente, perché ha a che fare con la morte e con la solitudine. Mi chiedo spesso perché mi interessi l’infanzia così tanto e non, per esempio, l’adolescenza che mi sembra un’età stupida, di conflitto, ibrida. Credo che l’infanzia sia l’unica fase che tu puoi decidere di rivivere quando vuoi, anche a ottant’anni. Me ne rendo conto nel mio quotidiano, nei pensieri che faccio, nei desideri che ho. Lì sperimenti morte e solitudine. Lì ho compreso cosa fosse l’abbandono. Ecco, un’altra promessa è che vivrò sempre la scrittura come un gioco, senza aspettative, come fai quando sei bambina e corri per ore intorno a un albero e non sai che cosa succederà dopo: non hai un obiettivo, in quel momento stai bene e godi di ciò che stai facendo. Il tuo unico bisogno è vivere. Correre. E tu attraversi il parco, lo vivi”.
Dopo queste parole ringrazio Ilaria e spengo il registratore. Continuiamo a chiacchierare di molto e molto altro ancora, sedute su due sedie a Piazza Vittorio.
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