Mariacarmela Leto, laureata in Lettere classiche, è stata cofondatrice e direttrice editoriale di Giulio Perrone Editore. Docente di scrittura creativa da quasi due decenni, è ora editor di narrativa e direttrice della collana Raid per Castelvecchi editore. 

Castelvecchi Editore, marchio storico con esperienza trentennale, come si entra a far parte di una famiglia già collaudata occupandosi di una cosa così importante come una collana? 

Quando sono andata via dalla Giulio Perrone Editore mi è venuto spontaneo dire che l’amore non si divide, si moltiplica. Usando il tuo campo semantico della famiglia diciamo che siamo in un momento, per fortuna, piacevolmente affollato di famiglie allargate. La nostra è una famiglia allargata molto fortunata. 

Le pubblicazioni della tua collana sono tutte quante storie piuttosto dirompenti

RAID, nata a novembre, già dal titolo vuole non fare guerra in maniera scomposta e mortifera, ma certamente dichiarare guerra a certi stereotipi, dichiarare guerra a un certo modo di narrare che strizza l’occhio e quindi normalizza, canonizza, banalizza… E questo è dirompente? Forse non lo è per niente…

Insomma un’editoria tradizionale

Beh, in qualche modo si fa un giro largo per tornare al centro delle cose, alla fine dov’è la rivoluzione? Non c’è.

Primo semestre di questa collana, riesci già a fare un bilancio? Stai vedendo i primi frutti o secondo te è ancora lontana la strada di questa collana

Le strade editoriali sono sempre tortuose e imponderabili, però devo dire che si può essere contenti quando l’avvio di questo cammino non ha troppi inciampi e imprevisti e io devo dirti che RAID è partita con l’entusiasmo di Castelvecchi, del mio editore Pietro D’amore, il mio e anche dei lettori che hanno avuto la generosità di darci fiducia. Chiaramente se ci si aspetta grandi numeri o proclami da parte nostra, no, però penso anche che la tenuta delle gambe di una collana non debba essere forzata e che alcuni passi, specie se sono nella direzione giusta, possono lasciarci ben sperare.

Rispetto al passato, in merito alla tua figura da editor, ci sono state differenze nel modo di approcciarti con gli autori e con i relativi testi? 

Allora, io provengo da un’esperienza quasi ventennale in una casa editrice che avevo fondato insieme a Giulio Perrone. Cambiando casa, e quindi entrando in una famiglia che ha già una propria configurazione, pensavo di dover prendere le misure e chiaramente questo è successo.

Ma il buon esito di incroci nuovi e di meticciati dipende anche dalla capacità di chi ti accoglie e di lasciarti essere chi sei. E questo da Castelvecchi è successo, con mia grande soddisfazione, e gratitudine.

Quanto effettivamente un testo può cambiare con la presenza di un editor? Tu che editor ti senti? Per farla alla Fagnani che belva sei con i tuoi autori?

Camaleontica, la generosità e la funzionalità di un editor risiedono non tanto nell’avere un approccio univoco, quanto studiare quello che con quell’autore specifico può funzionare. Per cui una leonessa se occorre, un panda, una nutria, un macaco, quello che serve perché quell’autore si senta compreso.

In qualche modo sono mimetica, mi adatto al branco che mi accoglie. 

Gallimard diceva che una casa editrice cresce insieme al suo autore e viceversa, pensi che questo valga anche per una figura importante come la tua, come quella di un editor, che cresce anche dopo un’esperienza ventennale?

Io non penso di aver dato tutto quello che voglio, spero di poterlo fare, di sicuro sento una rinnovatissima volontà di sperimentare, è un entusiasmo che mi fa ancora giovane, quindi incompleta e curiosa, e quindi ancora in crescita. E non si cresce da soli, mai.

All’editor del domani che consiglio dai? 

Di leggere molto chiaramente, di non lasciarsi sopraffare dall’emotività, di usare l’emotività e la compassione in senso alto, verso il testo e verso l’autore, solo in una fase successiva, di essere spietati e severi e coraggiosi se possibile.

Quindi il pregio dell’editor del futuro deve essere il coraggio? 

Credo che lo sia già, credo che in realtà tutti gli operatori di questo settore siano coraggiosi; che siano in qualche modo spinti da una forma di fanciullezza imperitura, il che implica anche il coraggio; e l’incoscienza a seconda dei punti di vista e delle situazioni. 

E un difetto, invece, che riscontri anche nei tuoi colleghi su questa professione così particolare e ambiziosa? 

Gli editor da cui ho imparato e che guardo con ammirazione  hanno poco da essere rimproverati.

Nelle discussioni di quest’ultimo di Salone, si è discusso molto del ruolo dell’autore rispetto all’opera e se l’editore — e tutta la sua impresa — pensa solo a monetizzare rispetto alla purezza dell’opera. Come ti poni nei confronti di questo punto di vista? 

Allora, se facciamo un discorso assolutamente astratto e quindi non organico, come direbbe qualcuno, ad un certo meccanismo, è chiaro che è inattaccabile questa posizione. È distorcente ed è anche indecoroso, dal mio punto di vista, chiedere a un autore di fare qualcosa che non appartiene al suo lavoro, cioè scrivere.  Magari non lo sa fare, magari non sa nemmeno presentare i suoi libri,  però immaginare che uno scrittore faccia i conti anche con un sistema in cui non è solo, è qualcosa che l’autore stesso non può dimenticare. E poi l’autore è coadiuvato da tante figure che partecipano come possono, altrimenti si entra in una forma di solipsismo che penso sia superabile e da superare, perché già la scrittura è molto solitaria. E poi mi chiedo: perché vuoi pubblicare, allora, se rifuggi dal sistema della pubblicazione che, portato alle estreme conseguenze, può essere una violenza ma, con un po’ di buonsenso, è un lavoro condiviso a cui l’autore dovrebbe avere voglia e piacere a partecipare? 

Come si fa i conti con il compromesso artistico? 

Beh ma tu mi fai delle domande da un milione di dollari… 

La domanda per eccellenza dell’editoria, come fai a coniugare… 

Il fatto che nessuno abbia trovato una risposta che metta d’accordo e che ci faccia… 

Allora diciamo per Mariacarmela, come si coniuga… 

Guarda, torniamo all’immagine della famiglia, perché tu l’hai inaugurata così e mi è rimasta impressa, perché poi in realtà anche fare l’editor per me rientra nell’alveo della maternità; in fondo li fai nascere questi libri. Tornando al discorso della famiglia, quindi, come si fa? Si fa come quando si sta appunto in famiglia, in cui lo spazio e il peso specifico di ciascuno deve confrontarsi con il peso e lo spazio dell’altro: quindi vedere l’altro, in questo caso l’editore, il mercato, il lettore tanto da detronizzare il proprio io, che è sempre un esercizio di grande virtù, ma senza farlo scomparire. Il compromesso è questo; è un compromesso esistenziale, è un compromesso universale. 

E si riescono a lasciare andare questi figli ribelli? 

Guarda, io amo gli esordienti perché sono, e spero saranno, gli scrittori del domani, ma hanno occhi stupiti, impauriti e non è detto che siano più obbedienti, quindi mi piace proprio la loro selvatichezza. Però siccome sono molto severa io dico a che gioco stanno giocando con le due o tre regole inoppugnabili delle quali non possiamo fare a meno.

Torniamo alla linea di questa tua collana dirompente…

Posso contraddirti? 

Assolutamente sì

Allora senti, io non penso che sia affatto dirompente o originale, perché nulla lo è, tutto è stato già visto, già fatto, come con gli amori. Però, come negli amori, ogni storia d’amore che inizia ti dà l’illusione, la speranza, il piacere, non so, di sentire, come per la prima volta, con questo ardore, con questo slancio. Quindi più che nelle tematiche, che sono tematiche archetipiche, universali, è il sentimento ad essere sempre nuovo, fresco. Nell’editoria buona troviamo milioni di libri che affrontano quei temi, perché è il mondo, perché è l’essere umano.

A me piace immaginare, sperare che il modo in cui li affrontiamo somigli al modo in cui ci si affida a una storia d’amore che inizia, che ha quella promessa d’eternità, poi magari smentita, e ha quella tensione, quel fuoco che brucia e che non può non divampare. 

Quindi RAID è una promessa all’eternità?

Raid è un calcio in culo alla dimenticanza di tanti tipi: quella piccola, quella spicciola che ci fa scordare chi siamo, chi abbiamo di fianco, ci fa dimenticare di guardare l’altro e poi l’oblio generale, quello tremendo, quello radicale, la morte.

E i libri alla fine sono una sfida contro la morte, per restare, perché qualcosa o qualcuno resta. 

L’editor è un mestiere felice? 

Sì, per me lo è. Per me è un mestiere felice perché è a contatto con una sostanza infiammabile ma preziosa. E quindi impari la cura, impari l’attenzione per l’altro.

È felice perché non sei vincolato da un tuo stile di scrittura, per esempio, o anche di lettura, perché il tuo gusto personale agisce interamente sì, però è come se sorvolassi dall’alto. È felice perché ogni autore ti consegna un mondo e quindi ti sembra di entrare e uscire da un sacco di universi e di avere un sacco di case. È felice perché quando poi nasce il libro, nel suo essere anche un prodotto tangibile, tu sai che sei stato lì ad aspettarlo esattamente come si aspettano le cose buone che hanno bisogno di tempo e alle quali hai partecipato, anche solo con uno sguardo amorevole, una parola detta bene al momento giusto.

Prossime uscite? 

Piste nere di Raffaella D’Elia, un’italiana molto brava. Tra poco uscirà anche  Provincia Cronica, di Giovanna Amato; stiamo parlando di questo mese qui. In più, abbiamo acquistato tutto Guillaume Dustan, e a novembre uscirà il libro più sentimentale e anche “dirompente”, visto che ti piace questo aggettivo e qui ci sta benissimo, che si intitola Nicolas Pages ed è un resoconto di una vita ma anche di un mestiere, quello dello scrittore.

Quindi è un bilancio sulla vita e sulla scrittura che non sono la prima, non sarò l’ultima a dirlo, si assomigliano tantissimo. Che fanno disperare e godere con la stessa identica intensità.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *